Il titolo, simpaticamente provocatorio, è stato scelto ad hoc per sottolineare il notevole contributo delle comunità italoamericane alla storia della musica jazz, una delle due Muse del XX secolo (l'altra è il cinema), ma nel contempo vuole avallare anche il giudizio espresso dall'ex Ministro degli Esteri, Giulio Terzi, che nel dicembre scorso, in occasione dell'inaugurazione dell'evento "2013 –Anno della Cultura Italiana negli Stati Uniti", ha sostenuto come "le comunità italoamericane hanno espresso e continuano ad esprimere personalità ai massimi livelli nelle istituzioni, nell'imprenditoria nel mondo della scienza e della cultura e promuovono l'immagine italiana in America in modo straordinario", precisando come le stesse "rappresentano un elemento di forza del rapporto tra Italia e Stati Uniti" . Il 12 dicembre scorso si è svolta la cerimonia ufficiale d'apertura dell'evento e per l'occasione è stata esposta la statua del David di Donatello alla National Gallery di Washington, fatta arrivare appositamente dal Museo del Bargello di Firenze. Il cartellone degli eventi in programma è ricchissimo, con l'intento di proporre l'eccellenza del made in Italy in tutte le sue forme, dalla scienza e la tecnologia al futuro della next generation, dal design al marchio italiano, dalla cucina italiana alle bellezze turistiche e paesaggistiche, dalla lingua e la letteratura, all'arte, al cinema e al teatro, alla fotografia e alla musica. Di tutto e di più, con tantissime iniziative organizzate lungo l'intero arco del 2013. Per la musica è previsto un eccezionale cartellone di concerti di classica e di balletti, a seguire un tour, in giugno, di Pino Daniele (San Francisco, New York e Washington), poi un altro di Mauro Pagani con l'ensamble "La notte della Taranta", mentre il nostro jazz sarà rappresentato dai trombettisti Enrico Rava con il suo gruppo Tribe e da Paolo Fresu in duo con il pianista Uri Caine, dal pianista Stefano Bollani in trio, in diverse date e location, tra cui San Francisco e Boston, passando per il mitico jazz club Birdland di New York, uno dei luoghi sacri della musica jazz. E' anche la città dove risiede una delle più importanti istituzioni jazzistiche americane, il Lincoln Jazz Center, diretto dal trombettista Wynton Marsalis e dove un italiano, il pianista e compositore pugliese Antonio Ciacca (un vanto per l'Italia), ricopre la carica di direttore della programmazione artistica, oltre ad insegnare Music Business presso la Juilliard School di NYC. Tutto ciò proprio mentre si avvicina un'altra data importante per la storia del jazz: la festa per i cent'anni della sua nascita discografica, tra quattro anni, perchè il 26 febbraio del 1917, l'Original Dixieland Jass Band registrò a New York negli studi della Victor le due facciate del primo disco a 78 giri di jazz che sia mai stato pubblicato, vale a dire Livery Stable blues e Original Dixieland one step,. Se ne vendettero un milione di copie, decretando l'inizio ufficiale dell'Era del Jazz. Ma il fatto straordinario fu che tra i cinque musicisti che presero parte a quella seduta discografica, due erano italo-americani, il cornettista e leader della formazione Nick La Rocca e il batterista Tony Sbarbaro, tutti e due di origini siciliane. Gli altri tre componenti del gruppo dell'ODJB erano il clarinettista Larry Shields, il trombonista Edwin "Daddy" Edwards, il pianista Henry Ragas. La Rocca e Sbarbaro furono i capostipiti di un interminabile filone di jazzisti italo-americani, figli e discendenti di quel grande movimento d'emigrazione che, soprattutto a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, portò verso gli Stati Uniti milioni italiani (più di venti solo negli Stati Uniti) e tra essi sono stati tantissimi i paisà votati allo swing che hanno raggiunto successo e notorietà. Come ad esempio Leon Roppolo, che fu il primo grande clarinettista della storia del jazz, Joe Venuti il primo violinista, Eddie Lang (all'anagrafe Salvatore Massaro) il primo chitarrista, Arnold Loyacano il primo contrabbassista, Tony Sbarbaro il primo batterista, Adrian Rollini fra i primi sassofonisti, nonchè primo solista di vibrafono, Santo Pecora fra i primi trombonisti, Jimmy Durante (che diventerà celebre nel cinema) il primo pianista, fino ad arrivare a grandi icone della musica americana, come ad esempio, Frank Sinatra. Una curiosità legata a queste ondate migratorie era che, molto spesso, per evitare qualsiasi allusione con la mafia, molti italiani arrivati nel Nuovo Mondo "americanizzavano" i loro nomi; ciò contribuiva, tra l'altro, a promuovere l'immagine dell'Italia e a consolidare i buoni rapporti con gli Stati Uniti. E' il caso, fra i tanti, del chitarrista Eddie Lang (Salvatore Massaro), del popolare attore e cantante Dean Martin, (all'anagrafe Dino Paul Crocetti) (1),o ancora di Salvatore Antonio Guaragna, nome di battesimo del noto compositore di canzoni e colonne sonore per film Harry Warren (2). Tra le diverse comunità degli italoamericani, quella che ha sfornato il maggior numero di jazzisti, è stata senza dubbio quella siciliana (3), ma anche tutte le altre "little Italy" formatisi nel resto degli Stati Uniti nel periodo della grande emigrazione, tra la fine del XIX secolo e gli anni Trenta del secolo scorso, hanno dato alla luce fior fiore di musicisti jazz, in tutti gli stili, strumenti ed epoche della storia del jazz (4). Vuoi per brevità di spazio, vuoi per la difficoltà a reperire fonti genealogiche certe di tanti italoamericani, vuoi ancora per una sorta di spirito campanilistico, ci occuperemo essenzialmente dei più importanti jazzisti italoamericani delle comunità napoletane, o più propriamente campane. La figura predominante è rappresentata dal pianista e compositore Leonard Joseph "Lennie" Tristano (1919 -1978), la cui famiglia era originaria della città di Aversa (Caserta), che gli ha intitolato anche una strada, prima città in Italia a farlo, nel decennale della sua morte, il 18 novembre 1988, con tanto di cerimonia ufficiale dell'Amministrazione Comunale, invitando per l'occasione anche gli ultimi allievi/seguaci di Tristano come la pianista Connie Crothers, il sassofonista Lenny Popkin, la figlia Carol Tristano alla batteria e Cameron Brown al contrabbasso, per un memorabile concerto nella sede del club di piazza Mercato ad Aversa (sempre vivo nei miei ricordi). Il tutto grazie alla preziosa iniziativa dei soci del club e del suo memorabile presidente, il compianto Franco Borrini. Lennie Tristano, cieco quasi dalla nascita a causa dell'influenza "spagnola" che lo aveva colpito sin da quando era nella culla, nonostante un carattere molto ostico, difficile, è stato il primo esponente della cosiddetta corrente del "cool jazz" a cavallo degli anni '40, nonché un anticipatore della "free music" degli anni '60, così come lo dimostrano alcune sue opere, come Intuition e Digression, del 1949. Fu un talento precoce sia in matematica che in musica e terminò gli studi al Conservatorio di Chicago in tempi più brevi del previsto e con il massimo dei voti; al pianoforte riusciva ad imitare in modo straordinario lo stile del grande Art Tatum, conquistando da subito giudizi entusiasti da parte di molti critici, tra cui quello autorevole di Barry Ulanov, della testata jazzistica "Metronome". Seppe riunire attorno a sé musicisti di grande valore come i sassofonisti Lee Konitz e Warne Marsh, il chitarrista Billy Bauer, il contrabbassista Arnold Fishkin, il batterista Shelly Manne, e registrando memorabili brani come Wow, Crooscurrent, Sax of a kind, Marionette, i citati Intuition e Digression, Yesterdays, per ricordarne solo alcuni tra i più conosciuti. Nel suo libro "Jazz. La vicenda e i protagonisti della musica afroamericana" (Oscar Mondadori), lo studioso Arrigo Polillo, ha scritto in proposito che "...appaiono chiaramente, in alcune di queste registrazioni, alcuni procedimenti prediletti da Tristano, e anzitutto quel suo periodare incalzante in cui momenti di grande tensione e momenti di distensione si susseguono incessantemente, in un movimento circolare sottilmente incantatorio. Certi passaggi a tempo raddoppiato, che vengono ripetuti più volte e ogni volta a tempo più lento, il solenne gioco dei bassi del suo pianoforte, che a molti ha richiamato alla mente Bach, e più in generale il contrasto fra l'impeto dell'improvvisazione e la nitida architettura dell'assieme sono altrettanti caratteri distintivi della musica proposta da Tristano coi piccoli gruppi". Successivamente, intorno al 1951, a cominciare dai pezzi Ju-Ju e Pastime, Tristano inizia a ricorrere ad alcuni artifizi per realizzare le sue idee, fra cui la tecnica del "multitaping", l'aumento in modo artificioso della velocità di registrazione, la sovrapposizione di più parti di piano eseguite in momenti diversi, o la registrazione a parte della ritmica dalla quale non voleva essere disturbato; il disco "Tristano" (Atlantic, 1956) ne è una dimostrazione. Tornando al suo carattere schivo e difficile, tra le cose che erano ostili al pianista di Chicago, c'era quella di suonare dal vivo, tant'è che sono abbastanza rari i concerti in pubblico, e a tal proposito rimane famoso quello organizzato, dopo tante e tante insistenze da parte dei fratelli "paisà", Mike e Sonny Canterino, nel loro locale Half Note, nel Greenvich Village, conquistato a suon di piatti di ravioli "concordati" preventivamente da Tristano e cucinati dal bravo cuoco, il papà dei Canterino, di origini lucane; la cosa piacque tanto a Tristano, così da volerci ritornare più volte. Rimane il fatto però che, specie dopo la seconda registrazione Atlantic "The New Tristano" composta da pezzi incisi tra il 1958 e il 1962, le apparizioni in pubblico si poterono contare sulle dita di una mano, nonostante le numerose offerte che continuamente gli arrivavano. Tra le altre curiosità, lo sapevate che Lennie Tristano ha elogiato, in un' intervista rilasciata al critico Franco Fayenz qualche anno prima di morire, uno dei più importanti pianisti italiani, allora agli inizi della sua carriera, ossia Franco D'Andrea? L'altra curiosità è legata al fatto che (per sua stessa ammissione), Tristano subì l'influenza – anche se solo agli inizi della sua carriera – di un altro grande del pianoforte jazz, Bill Evans. Tristano morì il 18 novembre 1978. Di qualche anno più giovane di Lennie Tristano, il batterista Louie Bellson (1924 – 2009), battezzato Luigi Balassoni, è stato un altro gigante della storia del jazz con il "pedigree" italiano, di origini napoletane, nominato nel 1998 "leggenda vivente della musica" dalla Zildjian, in occasione del trecentosessantaquattresimo anno di vita dell'azienda nel campo delle batterie, collocandolo nell'Olimpo delle percussioni assieme a Max Roach, Roy Haines ed Elvin Jones...anche se "Tutto quello che faccio – ebbe a dire in proposito – è un riflesso di quanto loro mi hanno mostrato" Dieci anni dopo, nel 2008, assieme ad un'altra leggenda del jazz, il trombettista Clark Terry, registrerà assieme a Bellson il disco Louie & Clark Expedition 2", 84 anni il primo e 88 anni il secondo, con l'entusiasmo e la gioia di due giovincelli, più la saggezza di due ottuagenari. Fu soprattutto con l'orchestra di Duke Ellington, a partire dai primi anni '50, che Louie Bellson prese il volo, proveniente dalle orchestre di Tommy Dorsey e Harry James, partecipando anche alle registrazioni di musica sinfonica e sacra di Duke Ellington ( i "Sacred Concerts" del 1965), ricevendo da molti suoi colleghi grandi apprezzamenti, Max Roach in primis, anche per le sue doti di arrangiatore e compositore. E di innovatore pure: l'uso della doppia grancassa fu una sua ideazione. Di padre napoletano e di madre romana, è il vibrafonista, compositore e produttore discografico Mike Mainieri, settantacinquenne (è nato a New York nel 1938) con un'anima da eterno ragazzo, il cui nome è indissolubilmente legato a quello del noto gruppo fusion degli Steps Ahead (5), di cui è leader e fondatore. Un gruppo nato da una costola della big band White Elefant, da lui creata a metà degli anni '60 a Woodstock, assieme a musicisti come Tim Hardin, Warren Bernhardt, Sam Brown, Randy e Michael Brecker, Tony Levin, Lew Soloff, Jon Faddis e altri ancora. Fu proprio allora che si cominciò a parlare di jazz rock e di musica di protesta, hippy; ed è per questo che Minieri ha sempre rivendicato di essere stato in anticipo su Miles Davis e il suo capolavoro del 1969 "BitchesBrew". "Ovviamente non ho nulla contro Miles, anzi è il mio idolo – ha detto in una recente intervista - ma tutta quella musica (di White Elefant, ndr) si sviluppò prima di Bitches Brew. Fu Davis ad ascoltarla ed esserne influenzato". Certo è che Mike Mainieri è stato da sempre un pioniere della sperimentazione di nuove forme e commistioni, oltre che un innovatore della tecnica del vibrafono, come lo dimostra il syntivibe, una versione elettronica dello strumento da lui ideata. Musicista eclettico e aperto alle novità, Mike Mainieri conta tra le sue innumerevoli esperienze musicali, anche quella di aver suonato con grandi artisti rock come Paul Simon, Billy Joel e Dire Straits. Anche il chitarrista Pat Martino (nato a Filadelfia il 25 agosto del1944) "the kid", come lo chiamavano, ha un po'sangue napoletano da parte di padre, dal quale eredita una grande quantità di dischi e preziosi consigli per muovere i primi passi, essendo stato anche lui cantante e chitarrista, nonché allievo di Eddie Lang, un mito delle cinque corde. Cosicchè tra i dischi di Django Reinhardt, Johnny Smith, dello stesso Lang e le lezioni del suo primo insegnante, Dennis Sandole, Pat Martino s'incammina sulla strada del professionismo debuttando su disco nel 1964 con il gruppo rhythm'n'blues di Willis Jackson, tra l'altro, con il suo nome di battesimo, Pat Azzara. Tre anni dopo, l'esordio da leader con l'etichetta Prestige e da quel momento in poi è un susseguirsi di traguardi: diventa amico e allievo di Wes Montgomery, si unisce al gruppo del sassofonista John Handy riscuotendo molto successo, studia cultura indiana, s'interessa dei primi mezzi elettronici e del sintetizzatore, e contribuisce in modo rilevante all'evoluzione della chitarra. Fino a quel fatidico 1980, quando Pat Martino viene colpito da un aneurisma cerebrale dal quale ne esce, dopo un delicato intervento chirurgico, con un'amnesia che gli cancella sia il ricordo di se stesso, di sua madre, che della chitarra e della sua carriera. Dovrà ricomincerà tutto d'accapo per ritornare quello di prima, e ci riuscirà grazie agli amici e all'ascolto dei suoi stessi dischi, ritornando ad incidere nel 1987 con l'album "The Return", che segna la sua rinascita. Da allora ha registrato altri sedici album a suo nome, rivelando tutta la sua ineccepibile maestria tecnica sulla chitarra: fraseggio preciso, grande senso del blues, precisione e potenza d'attacco, l'uso particolare di cromatismi, suono sensuale, robusto, pieno e soprattutto quelle lunghe linee d'improvvisazione, intrise di continue invenzioni e di fresca melodia. Un altro jazzista italoamericano le cui origini familiari provengono dall'hinterland napoletano, è il compositore e polistrumentista, specialista negli strumenti a fiato, Vinny Golia, nato nel Bronx di New York nel 1946, il cui impegno artistico, oltre il jazz e la musica improvvisata, si è rivolto anche alla composizione di musiche per balletto e opere di danza moderna, per il teatro e per i film, con felici sortite anche nel campo della musica accademica. Vive a Los Angeles da circa trent'anni, dove insegna al Californian Institute of the Arts e dove ha fondato nel 1977 l'etichetta discografica Ninewinds, con la quale ha prodotto gran parte della musica d'avanguardia californiana, anche se rispetto ad altri suoi colleghi del Golden State gode di minore notorietà. Con la famiglia dei sassofoni, flauti, clarinetti, shakuhachi (i flauti dritti giapponesi), fagotto e chi più ne ha ne metta, Vinny Golia ha elaborato e composto tutto il materiale musicale che fa parte della sua discografia, attingendo sia dal patrimonio jazzistico, sia da quello della musica classica e contemporanea, cimentandosi in alcuni casi anche come direttore d'orchestra, con grande successo, come nel caso del disco doppio dal vivo "The other Bridge (Oakland 1999)" , dove insieme a Stephanie Henry ha diretto una grande formazione che ha suonato una serie di temi di sua composizione; una musica forte che si collega alle linee tematiche post-free degli anni Settanta e di un certo braxtonismo a cui Golia è stato sempre legato. Complessivamente, la sua è stata un'attività molto diversificata, tra produzioni in duo, trii, quintetti fino a formazioni più larghe, dimostrando grandi qualità eclettiche e poliedriche; per fare alcuni esempi, nel disco "Against The Grain" (Nine Winds, 1993), in quintetto, si cimenta soprattutto al sopranino e al clarinetto basso, mentre nel live "One, Three, Two" (Jazz'Halo, 2001), sempre in quintetto, sciorina tutto il suo sapere per ciò che concerne la composizione jazz, o ancora in trio assieme ai contrabbassisti Barre Phillips e Bertram Turetzky nel disco "Trignition" (Nine Winds, 1998), manifesta apertamente il suo debole per i bassisti, oppure quando si trova a suo agio con un quartetto d'archi nel disco "Feeding Frenzy" (Nine Winds, 2003), un felice connubio tra classica e jazz, per finire al megaorganico Large Ensamble, da lui fondato nel 1982, che ha festeggiato i trent'anni delle sua nascita con una retrospettiva, uscita qualche mese fa, dal titolo "Large Ensamble Overview; 1996-2006" (Nine Winds, 2 cd + 2 dvd) , un box che documenta tre diversi momenti concertistici dell'orchestra per un totale di quattro ore di musica, dove prevalgono le forme estese e dove i momenti musicali sono molto diversi tra loro, tra aperture cameristiche, con tanto di archi in bella mostra, a vulcaniche sortite jazzistiche con fiati e percussioni a farla da padrone; per chi vuole conoscere più da vicino Vinny Golia, quest'ultimo è un documento da non perdere. Un altro grande chitarrista italoamericano di origini campane è Al Di Meola (nato a Jersey City nel 1954); i nonni erano di Cerreto Sannita (BN), un paese del Sannio dove l'emigrazione negli Stati Uniti a cavallo del '800 fu singolare perché portò benefici economici non solo di carattere personale e familiare, ma con il denaro che arrivò dall'altra parte dell'oceano fu possibile anche, ad esempio, ristrutturare e abbellire alcune chiese del paese e altri monumenti, oltre che fondare ben tre banche! La carriera di Al Di Meola si è caratterizzata soprattutto per l'alternarsi a formazioni musicali di impronta elettrica ed elettronica a quelle di carattere più squisitamente timbrica, nelle quali ha sempre svettato il suo eclettismo e la tecnica sopraffina. Dai suoi esordi con il gruppo Return to Forever con il pianista Chick Corea ad oggi, ha prodotto più di venticinque album da leader, di cui quattro hanno raggiunto anche la palma d'oro (tra cui "Land of the Midnight Sun" e "Elegant Gypsy"), oltre a centinaia di collaborazioni con artisti diversi come nel caso di quel mitico disco inciso nel 1980 con John McLaughlin and Paco De Lucia ("A Friday Night in SanFrancisco") oppure quell'altro con Paul Simon "Hearts and Bones" (1984) o ancora le collaborazioni con il grande bandoneonista argentino Dino Saluzzi "World Sinfonia" (1993), "Di Meola Plays Piazzolla" (1996) o gli strabilianti virtuosismi di "Rite of Strings" (1995) con il bassista Stanley Clarke e il violinista Jean-Luc Ponty , e tanti altri dischi fino all'eccellente "Pursuit of radical rhapsody" (2011) dove intorno alla sua "musica totale" e alla straordinaria maestria tecnica, si muovono musicisti del calibro di Charlie Haden al contrabbasso, del pianista afro-cubano Gonzalo Rubalcaba, del batterista Peter Erskine, del bandoneonista italiano Fausto Beccalossi, del percussionista Mino Cinelu, più altri musicisti, ottenendo giudizi eccellenti dalla critica specializzata. Di origini avellinesi, da parte di madre, è invece il sassofonista Jerry Bergonzi, nato a Boston il 21 ottobre del 1947, città dove ha mosso i suoi primi passi e dove, tranne una parentesi di circa cinque anni a New York (dal 1972 al 1978), Bergonzi trova l'ambiente ideale per quotidiani concerti o jam session e per dare lezioni private di sax che gli permettono, tra l'altro, di arrotondare le sue entrate. Un'attività, quest'ultima, che gli aprirà le porte, a metà anni '90, del New England Conservatory, una prestigiosa istituzione musicale bostoniana. Ma gli anni trascorsi a New York furono preziosi per Jerry Bergonzi, perché si fece notare dal pianista Dave Brubeck che ne rimase impressionato, tanto da invitarlo nel suo nuovo gruppo con Randy Jones alla batteria (dopo una parentesi di Butch Miles al suo posto) e il figlio di Dave, Chris Brubeck al basso, e per incidere tre dischi per l'etichetta Concord: "Back Home" (1979), "Tritonis" (1980) e "Paper Moon" (1981). Fu una vetrina importante, quella del gruppo di Brubeck, per proiettarsi con successo sulla scena musicale jazz americana, come altrettanto importante fu la collaborazione con un altro grande della storia del jazz, il clarinettista John La Porta, conosciuto durante l'esperienza orchestrale avuta al college di Boston, del quale rimane affascinato per la sua grande statura musicale, ringraziandolo anche per avergli saputo inculcare le diverse geometrie degli accordi. "Senti, tu – mi disse una volta fermando le prove dell'orchestra – non stai facendo quei cambi di accordo. Non stai facendo quei cambi di accordo!" Jerry tornò a casa così nervoso quella sera, che non si fece vedere finchè non imparò a memoria quegli accordi...e non solo quelli! In Italia Jerry Bergonzi vi approda sul finire degli anni Ottanta, registrando per l'etichetta Red Record di Sergio Veschi quattro dischi ottimamente riusciti: "On Red" (1988), "Inside out" (1989), "Etc Plus One (1991) "Together again for the first time (1998). Mentre con le incisioni effettuate nell'ultimo decennio, quali ad esempio, "Wiggy", "Intuition", "Tenor Talk", "Simply Put", "Convergence" e soprattutto "Three for All", inciso per la Savant nel dicembre 2008, Jerry Bergonzi conferma di essere uno dei strumentisti più dotati del nostro tempo, un sicuro riferimento stilistico, nonché un autorevole insegnante riconosciuto e stimato da tutti. Come Bergonzi, anche il chitarrista John Basile ha origini avellinesi che gli provengono da parte del nonno; è nato a Boston cinquantotto anni fa, dove si è anche laureato nel prestigioso New England Conservatory, ma dal 1979 è diventato newyorkese d'adozione. Chitarrista dal tocco pulito e con una tecnica invidiabile, John Basile si è fatto conoscere in Italia a cavallo degli anni Ottanta soprattutto come insegnante in diversi seminari, avendo già allora alle spalle tre album da leader con artisti di grande levatura come il contrabbassista Eddie Gomez ("Very Early"), il batterista Joey Baron, più un altro grande del contrabbasso come George Mraz e il mitico trombettista Tom Harrell (in "Quiet Passage"). Suona la chitarra da quando aveva quindici anni e per ciò che concerne il jazz, nei primi tempi ascoltava soprattutto Wes Montgomery e Kenny Burrell fino a che, a un certo punto, ha scoperto il suo grande maestro, Jim Hall, che insieme al pianista Bill Evans e il cantante Frank Sinatra, hanno rappresentato i suoi principali riferimenti ispiratori del suo stile: una softness molto swingante e "narrativa", una poesia e una profondità armonica proprio a là Hall, spiccate qualità di balladeur, oltre un impeccabile tocco fingerstyle. Per conoscerlo meglio oltre ai dischi già citati, si può ascoltare ancora "Animations" (Underhill jazz), con John Abercrombie, "Amplitude" (dove incide tre volte la propria chitarra), oppure "No Apologies" (quest'ultimi due con l'etichetta StringTime Jazz). Ma nonostante la sua indubbia classe e una carriera di tutto rispetto (anche in veste di accompagnatore di star del calibro di Peggy Lee, Tony Bennett, George Benson, Red Mitchell o i Brecker's brothers), John Basile oggi risulta un chitarrista ancora poco conosciuto al grande pubblico. Il pianista newyorkese Pete (Pietro Gaetano) Malinverni, invece, circa le sue origini italiane, ha risposto alla mia e-mail che i nonni materni erano della provincia di Pescara mentre i nonni paterni erano per metà napoletani e per l'altra metà piemontesi, "insomma – mi ha scritto – la mia sangue viene dall'Italia, quasi tutte parte!" . Nato a Niagara Falls il 16 aprile 1957, si è trasferito a New York nel 1981, dove ha iniziato la sua carriera di pianista avendo come modelli di riferimento stilistico dapprima i pianisti Red Garland e Ahmad Jamal, poi definitivamente Bill Evans, dal quale ha ereditato il tocco delicato e la brillantezza espressiva; ha al suo attivo dodici album a proprio nome ed è costantemente impegnato (e molto apprezzato) come insegnante (ha insegnato alla New York University ed è stato direttore della facoltà di jazz al Conservatorio del Purchase College (SUNY, Università dello Stato di New York). Dalla prima incisione "Don't be shy" (See Breeze, 1987), con Dennis Irwin (cb.) e Mel Lewis (batt.), all'ultima che è datata 2010, dal titolo "Beautiful thing"(Saranac/City Hall), con Lee Hudson (cb.) ed Elliot Zigmund (batt.), Pete Malinverni ha espresso, che oltre un pianismo brillante ed elegante, grandi doti di compositore, capace di una scrittura "...di grande profondità, passione e individualità", come è stata definita dal critico Dave McElfresh sulla rivista JazzTime. Una curiosità discografica è rappresentata dalla sua penultima incisione realizzata nel 2008, "Invisible Cities" (Reservoir Music) un omaggio allo scrittore italiano Italo Calvino, autore del libro "Città Invisibili", e con la stessa impronta del testo letterario, Malinverni dedica i vari brani del disco a diverse città del mondo come Istanbul, Chicago, Parigi, New Orleans, per l'Italia "Venezia", ecc. Dal matrimonio con la cantante Jody Sandhaus, alla quale Pete Malinverni ha dedicato anche un brano dell'ultimo disco, dal titolo "In the garden of Eternal Optimism" ( a sottolineare il suo spirito molto positivo), riceve la grande gioia di un figlio, Pietro Luca, nato il 18 dicembre 1995, che insieme agli altri due figli avuti dalla moglie dal precedente matrimonio, formano una famiglia felice. Purtroppo però, il 17 luglio 2012 succede qualcosa che sconvolge quella serenità familiare: dopo una serrata battaglia con quella maledetta malattia del XX secolo, muore la moglie Jody. "Ma credo che è lei che ha sconfitto la malattia – ha detto poi Pete – perché non ha mai avuto il pensiero di non farcela, ed è morta come ha vissuto, con dignità, spirito e grazia". Si conclude qui il nostro viaggio tra i protagonisti italoamericani della storia del jazz, che hanno rappresentato e rappresentano tutt'ora un motivo d'orgoglio per i nostri legami con gli Stati Uniti, da sempre ben solidi e collaborativi, che ci permetteranno, come è successo in altre occasioni, di fronteggiare nel migliore dei modi anche l'attuale crisi economica.
N O T E
(1) Il famoso attore e cantante americano Dean Martin (1917 -1995), nato Dino Paul Crocetti, aveva il papà barbiere, Gaetano, che era originario di Montesilvano (Pescara), mentre la mamma, Angela Barra, era di origini napoletane. Come cantante diceva di essere il più grande baritono del mondo, anche se non sapeva leggere la musica e riuscì a registrare più di 100 album e 600 canzoni. Ammise di aver copiato lo stile di Harry Mills (dei Mills Brother), Bing Crosby e Perry Como, ma a sua volta c'era chi, come Elvis Presley, gli riconosceva una certa influenza. Dean Martin era un pigro, aveva il vizio di bere, ma era anche uno showman di classe, sapeva improvvisare, aveva una grande prontezza di spirito e una vis comica unica, socialmente impegnato a sostenere tutte le cause del Movimento per i diritti civili soprattutto a Las Vegas, assieme a Frank Sinatra, anzi, si rifiutava di cantare in club che vietavano l'entrata agli afroamericani. Nel 2004 la sua famiglia ha ricevuto il disco d'oro per l'album Dino: The Essential Dean Martin (Capitol), giudicato il migliore e quello che ha venduto più copie.
(2) Salvatore Antonio Guaragna, nome di battesimo di Harry Warren (1893-1981) era uno degli undici figli di un calzolaio, Antonio Guaragna, e di Rachele De Luca, con originari calabresi di Cassano all'Ionio (Cosenza); è stato un italoamericano di successo negli States, anche se forse un pò dimenticato da noi in Italia. Ha raggiunto la celebrità soprattutto come compositore di musica per film, vincendo ben tre premi Oscar, scrivendo più di 800 canzoni, apparse in lungometraggi, film per il musical americano e cartoni animati della serie "Looney Tunes" della Warner Brothers. "Tuti", come era chiamato il piccolo Salvatore, era nato e cresciuto a Brooklyn, New York, in una famiglia con la passione musicale nel sangue ma - com'egli stesso ebbe a dichiarare - «la nostra poteva dirsi una famiglia musicale solo nel senso che si amava la musica e si cantava insieme, ma non c'era un pianoforte; il che mi dava pena, perché avevo desiderio di suonare».
(3) Bruce Raeburn , responsabile dell'Hoogan Jazz Archive della TulaneUniversity di New Orleans e Jack Stewart musicista e ricercatore, circa dieci anni fa pubblicarono uno studio approfondito sul notevole contributo degli italoamericani di origine siciliana (soprattutto delle province di Palermo, Trapani e Agrigento) alla nascita ed evoluzione del jazz. Uno dei primi jazzisti siciliani famosi negli States fu Oscar Papa "Jack" Laine (al secolo George Vitale), che con le sue "Relience Band" rappresentò un vero laboratorio per molti altri jazzisti di origini siciliane, (tra le sue fila anche lo stesso Nick La Rocca). Ma tutta la storia del jazz è piena di musicisti originari sicule: a cominciare da "The Voice", il mitico Frank Sinatra, al cantante e band leader Louis Prima, il nonno era originario di Salaperuta (TP) e la mamma di Ustica, al pianista Chick Corea, di madre messinese e padre di Catanzaro, al clarinettista sassofonista e compositore Jimmy Giuffrè, originario di Termini Imerese(PA), dal sassofonista Joe Lovano, originario di Alcàra Li Fusi (ME), al chitarrista Joe Pass (il cui vero nome era Giuseppe Passalacqua) originario di Gualtieri Sicaminò (ME), a Frank Rosolino, primo trombone solista dell' orchestra di Stan Kenton, originario di Partinico (PA), dal clarinettista Tony Scott (Anthony Sciacca) originario di Salemi (TP), del pianista bop preferito da Charlie Parker, ossia Dodo Marmarosa, ai sassofonisti JoeManeri e Chuk Mangione, al violinista Pat Maneri (figlio di Joe), ai batteristi Phil Zito, originario di Bisacquino (PA) e Steve Gadd, e tanti altri ancora fino ad arrivare agli attuali Ralph Alessi (trombettista), Joey De Francesco (p. e tastiere) e Lisa Mezzacappa (cb.), una siculo-molisana di origine. Senza dimenticare Peter De Rose che è stato certamente fra i più interessanti compositori di canzoni del Novecento. Tra le varie curiosità, c'è anche quella che tra le stelle di prima grandezza del jazz, ci sono tre musicisti che sono nati in Sicilia e poi si sono stabiliti in USA, cioè Vito «Vido» Musso, primo saxtenore solista di grandi orchestre come quelle di Benny Goodman, Harry James, Gene Krupa e Stan Kenton, nato nel 1913 a Carini, in via Roma 27, Pete (Pietro) Rugolo, mitico arrangiatore dell' orchestra di Stan Kenton, nato nel 1915 a San Piero Patti (ME), in viale Elena, e George Wallington, grande pianista e compositore il cui vero nome era Giacinto Figlia, nato nel 1924 a Palermo, in via Perez 105. Sull'argomento si può leggere il bel libro scritto dal veterano jazzista siciliano Claudio Lo Cascio, pianista, compositore e arrangiatore, dal titolo "Siciliani a New Orleans. Nick La Rocca".
(4) Tra il 1876 e il 1900, l' emigrazione italiana negli States , interessò soprattutto le regioni settentrionali, con il Veneto in testa (17,9%), seguito dal Friuli-Venezia Giulia (16,1%) e Piemonte (13,5%). Mentre nei due decenni successivi quasi tre milioni di persone lasciarono la Calabria, la Campania, la Puglia e la Sicilia e quasi nove milioni partirono dal resto dell' Italia. Complessivamente, fino ai giorni nostri sono stati circa 29 milioni quelli che hanno lasciato l'Italia e di questi circa la metà si sono stabiliti negli Stati Uniti. Per quanto riguarda la storia del jazz, i più importanti musicisti italoamericani sono stati, fra gli altri, i fratelli Pete e Conte Candoli, entrambi trombettisti, emiliani di Cesenatico, il violinista Joe Venuti (1894-1978) di Malgrate di Lecco, il cantante Michael Bublè (nonno di Preganziol, Treviso, e nonna di Montesilvano, Pescara), il cantante Perry Como (origini di Palena, Chieti), il sassofonista Charlie Mariano e il chitarrista Joe Diorio (abruzzesi), il mitico chitarrista Eddie Lang (Salvatore Massaro), la cui famiglia era originaria di Monteroduni (Isernia), Bill Russo, uno dei grandi compositori e arrangiatori del jazz (origini di Potenza), oltre una nutrita schiera di jazzisti di origini calabresi come il cantante Tony Bennett (Podargoni-RC), il bassista John Patitucci (Torano Castello-CS), il pianista Joey Calderazzo, il contrabbassista Scott La Faro (Siderno-RC), la pianista Rachel Z (Rachele Nicolazzo , genitori di Platania/Nicastro-CZ), il batterista Vinnie Colaiuta (PZ), i sassofonisti Sal Nistico (Soverato-CZ) e George Garzone (Martone-RC), e tanti altri ancora. Il libro di Amedeo Furfaro "Calabresi d'America: storie di musicisti", può essere utile per approfondire l'argomento.
(5) Gli Steps Ahead, nati nel 1979 intorno al vibrafonista Mainieri, sono un gruppo che nel corso della sua storia ha cambiato spesso la sua fisionomia; ai musicisti che inizialmente ne facevano parte, come Michael Brecker (t.sax), Eliane Elias (p.), Eddie Gomez (cb.) e Peter Erskine (batt.), ne sono via via succeduti diversi altri, specie dopo la dipartita dal gruppo di Brecker ed Erskine nel 1987, come il tastierista Warren Bernhardt, i bassisti Victor Bailey, Tony Levin, Richard Bonae Darryl Jones, i chitarristi Chuck Loebe, Mike Stern, i batteristi Steve Gadd e Dennis Chambers, i pianisti Don Grolnick e Rachelk Z, occasionalmente anche il sassofonista italoamericano Joe Farrell (Joseph Carl Firrantello), Bob Berg (sax), per arrivare alla composizione attuale del gruppo con Mainieri, Donny McCaslin (sax) Bryan Baker (chit.) Etienne Mbappe (bass), Steve Smith (batt.).
di Pasquale Gentile
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